Il Rally Dakar 2007 - non si chiama più Paris-Dakar, del resto il suo tragitto è Lisbona-Dakar - non passerà più da Tombouctu, la capitale del Mali. Il Ministero degli esteri maliano aveva infatti vivamente sconsigliato le tappe Nema-Tombouctou e ritorno, previste per il 16 e 17 gennaio, che dovevano attraversare una zona considerata a rischio fra l'est della Mauritania e il nord del Mali. Anche i servizi segreti francesi avevano attirato l'attenzione sulle minacce da parte del Gspc, gruppo islamista armato algerino.
Resta il fatto che, comunque si chiami e quali che siano le nuove tappe, con il rally che traversa il Sahara arrivano ogni anno le proteste. Un po' perché fa vittime, tra i piloti (il 9 gennaio è morto un concorrente di 29 anni) e tra gli abitanti dei luoghi: l'anno scorso due bambini; negli anni scorsi in tutto 17 vittime africane fra gli «spettatori». I piloti di camion, auto e moto in gara hanno il diritto di attraversare i polverosi villaggi al massimo della velocità consentita dalle condizioni delle «strade».
Così anche questa volta il francese Cavad (Collettivo d'azione per le vittime anonime - cioè quelle africane, ndr - della Dakar) ha tenuto spettacoli e manifestazioni di protesta, e sul suo sito (www.stop-rallyedakar.com) è sempre possibile firmare la petizione: «Di fronte al rodeo pubblicitario sul continente della povertà, e all'uso dell'Africa come terreno di gioco, chiediamo ai governi dei paesi attraversati di rifiutare la loro collaborazione, e a tutti di collaborare per la fine della manifestazione». Anche il giornale burkinabè Le Faso, parlando di esibizione arrogante e umiliante - e contestando l'idea che si tratti di una festa per i villaggi polverosi attraversati - ha criticato in primo luogo i governi africani che danno l'assenso a una «gara di borghesi europei annoiati», assai profittevole per gli sponsor (vista la pubblicità televisiva garantita dalle telecronache con zoom sugli striscioni delle réclame) ma di nessun vantaggio per i paesi «di accoglienza», a meno che non richiedano la metà degli incassi dell'evento per destinarli a fini sociali. In realtà, arrivano al massimo noccioline, sotto forma di piccoli progetti di beneficenza.
Quest'anno lo stesso Osservatore romano ha bollato la competizione iniziata il 6 gennaio: si tratterebbe di qualcosa che «ha poco a che vedere con una competizione sana», sia per il sangue versato ogni anno sia per il tentativo che sottende di esportare i modelli occidentali in un contesto umano ed ecologico extraoccidentale.
Il gruppo ambientalista francese Génération Ecologie sostiene che, quantomeno, il tracciato del rally è sbagliato rispetto alla sua vocazione dichiarata: quella di mettere alla prova macchine e piloti nelle dure condizioni del deserto, in zone disabitate. Invece, il passaggio di costosi veicoli nelle zone abitate, oltre a provocare incidenti, stride con le condizioni di miseria e degrado ambientale dei luoghi. Sono stati fatti anche alcuni calcoli delle emissioni di gas serra collegate alla manifestazione: per le 250 moto in gara occorrono 123.000 litri di carburante pari a 257 tonnellate di anidride carbonica; per le 164 automobili, le tonnellate sono 235, e per i 70 camion 387. In totale, 880 tonnellate, anzi di più perché il calcolo è fatto su un uso classico dei relativi veicoli, e non per quell'uso estremo. Mille tonnellate sono irrilevanti nell'economia generale del riscaldamento climatico, ma sono gravi se continuano a diffondere il mito di veicoli a motore individuali e potenti, quando si dovrebbe invece puntare sull'idea che occorre farne il più possibile a meno. Questa motivazione, insieme a critiche per l'impatto locale della gara, si riassumeva in un adesivo assai diffuso in Francia anni fa: «Paris-Dakar pas d'accord».
Fatima Allaoui, portavoce del Fondo maghrebino per l'ambiente e lo sviluppo, ha lanciato anche l'anno scorso un appello ai partecipanti: «Siamo preoccupati per l'imperante malsviluppo, il degrado globale e l'effetto serra. Per questo esortiamo i partecipanti al rally a fermare i loro bolidi, che schiacciano come mosche degli innocenti». Anche questa è una protesta antica: già nell'ottobre 1991 il Forum, nel corso di un seminario a Tunisi su diritti umani, pace e ambiente, si concluse con la raccomandazione (fra le altre) di vietare il rally.
Anzi: sembra che di fronte a questa «neocolonizzazione motorizzata» i contestatori abbiano perso adepti, rispetto agli anni in cui perfino i deputati europei cercavano di ottenere la soppressione dell'evento. Ci si abitua a tutto.
Resta il fatto che, comunque si chiami e quali che siano le nuove tappe, con il rally che traversa il Sahara arrivano ogni anno le proteste. Un po' perché fa vittime, tra i piloti (il 9 gennaio è morto un concorrente di 29 anni) e tra gli abitanti dei luoghi: l'anno scorso due bambini; negli anni scorsi in tutto 17 vittime africane fra gli «spettatori». I piloti di camion, auto e moto in gara hanno il diritto di attraversare i polverosi villaggi al massimo della velocità consentita dalle condizioni delle «strade».
Così anche questa volta il francese Cavad (Collettivo d'azione per le vittime anonime - cioè quelle africane, ndr - della Dakar) ha tenuto spettacoli e manifestazioni di protesta, e sul suo sito (www.stop-rallyedakar.com) è sempre possibile firmare la petizione: «Di fronte al rodeo pubblicitario sul continente della povertà, e all'uso dell'Africa come terreno di gioco, chiediamo ai governi dei paesi attraversati di rifiutare la loro collaborazione, e a tutti di collaborare per la fine della manifestazione». Anche il giornale burkinabè Le Faso, parlando di esibizione arrogante e umiliante - e contestando l'idea che si tratti di una festa per i villaggi polverosi attraversati - ha criticato in primo luogo i governi africani che danno l'assenso a una «gara di borghesi europei annoiati», assai profittevole per gli sponsor (vista la pubblicità televisiva garantita dalle telecronache con zoom sugli striscioni delle réclame) ma di nessun vantaggio per i paesi «di accoglienza», a meno che non richiedano la metà degli incassi dell'evento per destinarli a fini sociali. In realtà, arrivano al massimo noccioline, sotto forma di piccoli progetti di beneficenza.
Quest'anno lo stesso Osservatore romano ha bollato la competizione iniziata il 6 gennaio: si tratterebbe di qualcosa che «ha poco a che vedere con una competizione sana», sia per il sangue versato ogni anno sia per il tentativo che sottende di esportare i modelli occidentali in un contesto umano ed ecologico extraoccidentale.
Il gruppo ambientalista francese Génération Ecologie sostiene che, quantomeno, il tracciato del rally è sbagliato rispetto alla sua vocazione dichiarata: quella di mettere alla prova macchine e piloti nelle dure condizioni del deserto, in zone disabitate. Invece, il passaggio di costosi veicoli nelle zone abitate, oltre a provocare incidenti, stride con le condizioni di miseria e degrado ambientale dei luoghi. Sono stati fatti anche alcuni calcoli delle emissioni di gas serra collegate alla manifestazione: per le 250 moto in gara occorrono 123.000 litri di carburante pari a 257 tonnellate di anidride carbonica; per le 164 automobili, le tonnellate sono 235, e per i 70 camion 387. In totale, 880 tonnellate, anzi di più perché il calcolo è fatto su un uso classico dei relativi veicoli, e non per quell'uso estremo. Mille tonnellate sono irrilevanti nell'economia generale del riscaldamento climatico, ma sono gravi se continuano a diffondere il mito di veicoli a motore individuali e potenti, quando si dovrebbe invece puntare sull'idea che occorre farne il più possibile a meno. Questa motivazione, insieme a critiche per l'impatto locale della gara, si riassumeva in un adesivo assai diffuso in Francia anni fa: «Paris-Dakar pas d'accord».
Fatima Allaoui, portavoce del Fondo maghrebino per l'ambiente e lo sviluppo, ha lanciato anche l'anno scorso un appello ai partecipanti: «Siamo preoccupati per l'imperante malsviluppo, il degrado globale e l'effetto serra. Per questo esortiamo i partecipanti al rally a fermare i loro bolidi, che schiacciano come mosche degli innocenti». Anche questa è una protesta antica: già nell'ottobre 1991 il Forum, nel corso di un seminario a Tunisi su diritti umani, pace e ambiente, si concluse con la raccomandazione (fra le altre) di vietare il rally.
Anzi: sembra che di fronte a questa «neocolonizzazione motorizzata» i contestatori abbiano perso adepti, rispetto agli anni in cui perfino i deputati europei cercavano di ottenere la soppressione dell'evento. Ci si abitua a tutto.
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