pareti piene di sangue"Una macelleria messicana. Durante le indagini non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento cosi' grave da parte dei poliziotti per spirito di appartenenza". E' la testimonianza resa da Michelangelo Fournier, all'epoca del G8 a Genova vice questore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma ed oggi uno dei 28 poliziotti imputati per la sanguinosa irruzione nella scuola Diaz. Fournier ha fornito una nuova versione su quello che aveva visto al momento della sua irruzione: veri e propri pestaggi ancora in atto su giovani inermi nei loro sacchi a pelo.
Alla Diaz c'erano decine di giovani che stavano dormendo, svegliati dalle selvagge manganellate sferrate loro con cieca violenza da poliziotti mandati lì per quello. Le scene che i racconti e le immagini ci mettono da sei anni davanti agli occhi sono terribili. Muri e pavimenti coperti di sangue, una ragazza a terra con la testa in una pozza di sangue, decine di persone inermi pestate e massacrate di botte.
Quelle dei poliziotti non furono né iniziative isolate né eccessi...
ma facevano parte di un disegno politico criminale da parte di apparati dello Stato, come era chiaro sin da subito e come ha confermato la sentenza di condanna nei confronti dello Stato emessa oltre un mese fa (vedi articoli correlati).
Diaz: pavimenti pieni di sangue "Sembrava una macelleria messicana": queste le parole di Michelangelo Fournier oggi in aula a Genova, rispondendo alle domande del pm Francesco Cardona Albini.
"Arrivato al primo piano dell'istituto ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana".
"Ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo".
Immediata la richiesta del Pm Zucca che ha chiesto a Fournier come mai non avesse mai detto prima queste cose, durante le indagini, quando aveva fornito una versione diversa. Fournier ha risposto: "Non erano uomini miei e non l'ho detto prima per senso di appartenenza al corpo".
Sei anni dopo la verità, evidente sin dall'inizio a tutte le persone intelligenti e oneste ed anche solo minimamente informate, diventa sempre più evidente e sempre più impossibile da nascondere, da scacciare via.
Il Comitato Verità e Giustizia per Genova commenta:
Il dottor Fournier ha parlato di "macelleria messicana". L'attuale ministro degli Esteri, nel 2001, parlò di "notte cilena". Si ricorre all'esotismo, ma siamo di fronte a una "perquisizione all'italiana" che ha macchiato la credibilità della polizia e dello stato. A questo punto chiediamo: il capo della polizia non ha niente da dire? Il ministro degli Interni farà finta di nulla anche stavolta? Il parlamento continuerà a tenere in un cassetto la legge sulla commissione d'inchiesta?
I nomi non li fa, ma l'episodio del quale è stato testimone ce l'ha ben in testa: quattro o cinque poliziotti che picchiavano a man bassa una dozzina di manifestanti a terra, compresa una che sembrava morta, al primo piano della scuola Diaz. L'allora comandante del VII nucleo sperimentale della Mobile di Roma, Michelangelo Fournier, 43 anni, oggi sempre dirigente del reparto mobile romano, a sei anni di distanza dal G8 ha ritrovato la memoria: «Ho visto massacrare 10 o 12 manifestanti stesi a terra e quattro o cinque agenti infierire, all'inizio pensavo che fosse una colluttazione, poi li ho strattonati e invitati a smettere, due erano col cinturone bianco, altri due con le pettorine, non erano del mio reparto», ha detto ieri in aula al processo per l'assalto alla Diaz (63 feriti su 93 manifestanti arrestati di cui alcuni finirono in ospedale in pericolo di vita, 28 poliziotti indagati).
La ricostruzione è precisa. Fournier, in aula come imputato per concorso in lesioni, è dietro ai primi uomini del VII nucleo fuori del cancello centrale insieme, dice lui, a personale di reparti mobili italiani, della questura e della prevenzione anticrimine. Sfondato il cancello, entra nel cortile, passa dalla porta a sinistra, arriva al primo piano al massimo due minuti dopo aver superato il cancello. Quindi tra i primissimi.
I pm Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona gli hanno chiesto come mai non abbia ritenuto necessario denunciare i picchiatori: «Non ne parlai per carità di patria - ha detto testuale - non volevo arrecare ulteriore danno e non tirare fango» e poi «eccessi del personale pubblico sono sempre esistiti, è compito del funzionario arginare, denunciare i propri uomini non è semplice», che suona come un'ammissione di colpa. Incalzato dai pm, Fournier ha anche detto che la sua relazione «non è falsa, semmai è relativa». E poi lo sfogo, captatio benevolentiae, «mi sono portato una croce non indifferente per sei anni - ha detto uno dei protagonisti di quella che in un interrogatorio definì ''macelleria messicana'' - non è stato gratis».
Tra quei manifestanti su cui si accanirono i pestaggi c'era anche Melanie Jonasch. Vedendola Fournier si toglie il casco e grida il fatidico «basta, basta». Quindi «mi avvicinai, sembrava in fin di vita e mi accertai che arrivassero i soccorsi». Su Melanie, ricoverata poi in prognosi riservata per una decina di giorni, è tornato verso la fine della deposizione: «Fuori nel cortile ero disgustato e preoccupato, ero convinto che quella ragazza sarebbe morta». Anche se verso la fine del processo Fournier ha appreso con stupore che fu arrestata anche lei con l'accusa di lesioni, resistenza e associazione a delinquere. Per sei anni non sarebbe stato al corrente di nulla.
Ma c'è un altro omissis, che si scopre solo ora: Fournier è stato anche testimone di una violenza a sfondo sessuale, raccontata da molte parti lese: «C'era un poliziotto corpulento, in borghese che davanti a una manifestante mimava un coito, un comportamento indegno», ha commentato. Altro fatto mai apparso in alcun interrogatorio o deposizione dello stesso Fournier.
Insomma Fournier, come Canterini, cerca di allontanare ogni accusa dai propri uomini, anche se «l'esclusione assoluta (che abbiano pestato, ndr) non la posso fare». Intanto emergono aspetti tragico-surreali, tipo «credevo che l'operazione si svolgesse in un magazzino e invece scoprii che si trattata di una scuola». E poi, «sia i cinturoni che i caschi vennero dati a dirigenti di polizia che ne erano sprovvisti», Troiani incluso. Il laringofono, che non era inserito nel casco ma attaccato a gola e orecchie, era stato fornito anche a due dirigenti della Digos genovese (Mortola e Di Sarro). Ma sia Fournier che Canterini non hanno comunicato niente durante l'intera operazione. Poi l'ultimo coup-de-teatre: «Il colpo in testa col tonfa lascia poche possibilità di sopravvivere. Spero che i tonfa restino sotto sequestro per i prossimi mille anni». Alla fine dell'udienza gli avvocati dei poliziotti hanno detto che nessuno degli indagati parlerà mai più in aula, anche se i pm hanno chiesto che comunque vengano a dirlo uno per uno davanti al tribunale presieduto da Gabrio Barone.
Alla Diaz c'erano decine di giovani che stavano dormendo, svegliati dalle selvagge manganellate sferrate loro con cieca violenza da poliziotti mandati lì per quello. Le scene che i racconti e le immagini ci mettono da sei anni davanti agli occhi sono terribili. Muri e pavimenti coperti di sangue, una ragazza a terra con la testa in una pozza di sangue, decine di persone inermi pestate e massacrate di botte.
Quelle dei poliziotti non furono né iniziative isolate né eccessi...
ma facevano parte di un disegno politico criminale da parte di apparati dello Stato, come era chiaro sin da subito e come ha confermato la sentenza di condanna nei confronti dello Stato emessa oltre un mese fa (vedi articoli correlati).
Diaz: pavimenti pieni di sangue "Sembrava una macelleria messicana": queste le parole di Michelangelo Fournier oggi in aula a Genova, rispondendo alle domande del pm Francesco Cardona Albini.
"Arrivato al primo piano dell'istituto ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana".
"Ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo".
Immediata la richiesta del Pm Zucca che ha chiesto a Fournier come mai non avesse mai detto prima queste cose, durante le indagini, quando aveva fornito una versione diversa. Fournier ha risposto: "Non erano uomini miei e non l'ho detto prima per senso di appartenenza al corpo".
Sei anni dopo la verità, evidente sin dall'inizio a tutte le persone intelligenti e oneste ed anche solo minimamente informate, diventa sempre più evidente e sempre più impossibile da nascondere, da scacciare via.
Il Comitato Verità e Giustizia per Genova commenta:
Il dottor Fournier ha parlato di "macelleria messicana". L'attuale ministro degli Esteri, nel 2001, parlò di "notte cilena". Si ricorre all'esotismo, ma siamo di fronte a una "perquisizione all'italiana" che ha macchiato la credibilità della polizia e dello stato. A questo punto chiediamo: il capo della polizia non ha niente da dire? Il ministro degli Interni farà finta di nulla anche stavolta? Il parlamento continuerà a tenere in un cassetto la legge sulla commissione d'inchiesta?
I nomi non li fa, ma l'episodio del quale è stato testimone ce l'ha ben in testa: quattro o cinque poliziotti che picchiavano a man bassa una dozzina di manifestanti a terra, compresa una che sembrava morta, al primo piano della scuola Diaz. L'allora comandante del VII nucleo sperimentale della Mobile di Roma, Michelangelo Fournier, 43 anni, oggi sempre dirigente del reparto mobile romano, a sei anni di distanza dal G8 ha ritrovato la memoria: «Ho visto massacrare 10 o 12 manifestanti stesi a terra e quattro o cinque agenti infierire, all'inizio pensavo che fosse una colluttazione, poi li ho strattonati e invitati a smettere, due erano col cinturone bianco, altri due con le pettorine, non erano del mio reparto», ha detto ieri in aula al processo per l'assalto alla Diaz (63 feriti su 93 manifestanti arrestati di cui alcuni finirono in ospedale in pericolo di vita, 28 poliziotti indagati).
La ricostruzione è precisa. Fournier, in aula come imputato per concorso in lesioni, è dietro ai primi uomini del VII nucleo fuori del cancello centrale insieme, dice lui, a personale di reparti mobili italiani, della questura e della prevenzione anticrimine. Sfondato il cancello, entra nel cortile, passa dalla porta a sinistra, arriva al primo piano al massimo due minuti dopo aver superato il cancello. Quindi tra i primissimi.
I pm Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona gli hanno chiesto come mai non abbia ritenuto necessario denunciare i picchiatori: «Non ne parlai per carità di patria - ha detto testuale - non volevo arrecare ulteriore danno e non tirare fango» e poi «eccessi del personale pubblico sono sempre esistiti, è compito del funzionario arginare, denunciare i propri uomini non è semplice», che suona come un'ammissione di colpa. Incalzato dai pm, Fournier ha anche detto che la sua relazione «non è falsa, semmai è relativa». E poi lo sfogo, captatio benevolentiae, «mi sono portato una croce non indifferente per sei anni - ha detto uno dei protagonisti di quella che in un interrogatorio definì ''macelleria messicana'' - non è stato gratis».
Tra quei manifestanti su cui si accanirono i pestaggi c'era anche Melanie Jonasch. Vedendola Fournier si toglie il casco e grida il fatidico «basta, basta». Quindi «mi avvicinai, sembrava in fin di vita e mi accertai che arrivassero i soccorsi». Su Melanie, ricoverata poi in prognosi riservata per una decina di giorni, è tornato verso la fine della deposizione: «Fuori nel cortile ero disgustato e preoccupato, ero convinto che quella ragazza sarebbe morta». Anche se verso la fine del processo Fournier ha appreso con stupore che fu arrestata anche lei con l'accusa di lesioni, resistenza e associazione a delinquere. Per sei anni non sarebbe stato al corrente di nulla.
Ma c'è un altro omissis, che si scopre solo ora: Fournier è stato anche testimone di una violenza a sfondo sessuale, raccontata da molte parti lese: «C'era un poliziotto corpulento, in borghese che davanti a una manifestante mimava un coito, un comportamento indegno», ha commentato. Altro fatto mai apparso in alcun interrogatorio o deposizione dello stesso Fournier.
Insomma Fournier, come Canterini, cerca di allontanare ogni accusa dai propri uomini, anche se «l'esclusione assoluta (che abbiano pestato, ndr) non la posso fare». Intanto emergono aspetti tragico-surreali, tipo «credevo che l'operazione si svolgesse in un magazzino e invece scoprii che si trattata di una scuola». E poi, «sia i cinturoni che i caschi vennero dati a dirigenti di polizia che ne erano sprovvisti», Troiani incluso. Il laringofono, che non era inserito nel casco ma attaccato a gola e orecchie, era stato fornito anche a due dirigenti della Digos genovese (Mortola e Di Sarro). Ma sia Fournier che Canterini non hanno comunicato niente durante l'intera operazione. Poi l'ultimo coup-de-teatre: «Il colpo in testa col tonfa lascia poche possibilità di sopravvivere. Spero che i tonfa restino sotto sequestro per i prossimi mille anni». Alla fine dell'udienza gli avvocati dei poliziotti hanno detto che nessuno degli indagati parlerà mai più in aula, anche se i pm hanno chiesto che comunque vengano a dirlo uno per uno davanti al tribunale presieduto da Gabrio Barone.
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