Un articolo su di un argomento delicatissimo che spiega meglio la tristemente famosa pillola dal nome di ru486 abbiate pazienza e' un po' lungo ma molto interessante:
Non è un farmaco perché la gravidanza non è una patologia. E perché il figlio-embrione non è un virus. La RU486 è una pillola-killer, altro che una innocua pasticca indolore! E la sua commercializzazione in Italia, decretata il 30 luglio scorso, dopo quattro ore di riunione, dal Consiglio di amministrazione dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, è solo una presa d’atto. Il mifepristone, la sostanza contenuta nella RU486, è già stata utilizzata in Italia facendola arrivare dall’estero: nel 2006 è stata utilizzata negli ospedali del Piemonte, dell’Emilia Romagna, della Toscana, delle Marche e a Trento per un totale di 1.151 casi; nel 2007 ancora in Emilia Romagna, Toscana, Marche, Puglia e Trento per un totale di 1.010 casi. Evitarne la commercializzazione avrebbe scatenato un’ondata di proteste: «Negato il diritto all’aborto chimico», «L’Aifa cellula del Vaticano», «I talebani dell’Aifa contro le donne», insomma il solito bla-bla…
Secondo le disposizioni impartite dall’Aifa la pillola della morte potrà essere utilizzata in Italia solo in ambito ospedaliero per il «massimo rispetto della legge 194 (al festival dell’ipocrisia ci sono sempre nuovi attori - ndr -) (…). Dopo una lunga istruttoria è stato raccomandato di utilizzare il farmaco entro il quarantanovesimo giorno, cioè entro la settima settimana».
La carità della verità impone chiarezza, onestà intellettuale, rigore scientifico. E può essere utile iniziare facendo un po’ si storia.
Tanto per intenderci la paternità della RU486 (sigla derivante dal nome della ditta francese Roussel Uclaf e dalla etichettazione della molecola, 38486) è attribuita a Etienne-Emile Baulieu, un endocrinologo francese consulente dal 1963 della stessa ditta francese. In realtà è l’ungherese Arpad Istvan Csapo che muove le prime ricerche sugli effetti del progesterone sull’utero ravvisando l’interruzione della gravidanza quando viene bloccato lo stesso progesterone (è un ormone a struttura steroidea, sintetizzato dall’ovaio e dal surrene) (1). Siamo alla fine degli anni Sessanta, inizio degli anni Settanta. Le sue ricerche, le ipotesi di lavoro sono riprese dal gruppo di studio di Baulieu che occupandosi del controllo della fertilità - un’altra ossessione del femminismo - nel 1970 giunge ad individuare il recettore del progesterone nell’utero. E’ George Teutsch a sintetizzare il mifepristone nell’aprile del 1980 con il codice RU38486. Teutsch è un chimico e direttore delle ricerche endocrinologiche della Roussel Uclaf (2).
La miscela conoscitiva dei tre medici inizia ad esplodere per le prime applicazioni nell’ottobre del 1981: su 11 donne nove abortiscono con mifepristone e due devono ricorrere all’aborto chirurgico. Decisamente, un buon inizio di morte…
Ufficialmente la pillola abortiva è introdotta in Francia nel 1988 (non è irrilevante sottolineare che il Governo possedeva il 36% della Roussel Uclaf e che in piena bagarre il ministro socialista della Sanità francese Claude Evin ebbe a dire che «la RU486 è diventata proprietà morale delle donne»).
E’ un prodotto chimico sotto forma di pastiglia che contiene una sostanza chiamata mifepristone, uno steroide sintetico che inibisce il progesterone, (come si scriveva poc’anzi, l’ormone deputato a consentire il naturale proseguimento della gravidanza). Presa la pasticca (alcuni protocolli prevedono una dose di 600 mg, ma già 200 sono letali), (3) sostanzialmente, l’embrione muore lentamente in grembo. Il 3-5% delle donne abortisce. Non c’è bisogno dell’ospedale, di un’assistenza, di un medico. L’azione omicida della RU486 è combinata con un’altra sostanza, il misoprostol - una prostaglandina -, contenuta in un’altra pasticca (400 mcg) che scatena nell’utero le contrazioni necessarie per l’espulsione del sacco amniotico contenente il figlio-embrione. Due pasticche da inghiottire con un bicchier d’acqua e da prendere a distanza di due-tre giorni, apparentemente innocue. Un mix micidiale per l’embrione. Il procedimento tra la prima e la seconda pasticca deve avvenire entro il 49° giorno di gestazione. L’80% delle donne abortisce dopo la seconda pasticca. Il 12-15% espellerà il figlio-embrione entro 15-20 giorni. Un calvario lunghissimo. Il 5-8% delle donne sarà costretta, comunque, a ricorrere all’intervento chirurgico o all’isterosuzione per lo svuotamento completo dell’utero.
Venduta e pubblicizzata come rimedio facile al più temuto cruento aborto chirurgico, la realtà finora ha contraddetto le più rosee previsioni. Sono gli effetti collaterali, soprattutto nella fase espulsiva a destare maggiori preoccupazioni: «Dolori addominali e crampi (seconda la FDA - l’americana Food and Drug Administration - ndr - se ne lamenta il 96% delle donne), nausea (per il 61% delle donne), ma il di testa (31%), vomito (il 26%) diarrea (il 20%), vertigini (il 12%), affaticamento generale (10%), mal di schiena (9%). In misura minore si possono presentare brividi, esantema, perdita di coscienza, variazioni nella pressione del sangue e anche la febbre, che fino a 38° non è considerata un sintomo pericoloso» (4). Inoltre il flusso emorragico conseguente all’assunzione delle due pasticche è per quantità e durata notevolmente maggiore di un regolare flusso mestruale: da 8 a 17 giorni (5).
La stessa introduzione in Francia non è stata esente da problemi. E’ stato necessario modificare la vecchia legge Veil (1975) estendendo la possibilità di aborto fino alla 14ma settimana. Nel 2004 sono state aggiornate le linee guida.
La sua decantata innocuità è solo una misera bandiera ideologica, abilmente messa in campo da quelle agenzie politico-culturali che sanno orchestrare bene la musica da suonare per i loro scopi.
Eppure con questa «velenosa zigulì» sono morte 29 donne.
Ecco una breve lista di coloro che sono state immolate sull’altare del paleo-femminismo, oggi travestito da tecno-scientismo: Nadine Walkowiak muore in Francia, l’8 aprile del 1991 a 31 anni per uno shock cardiovascolare dopo un’iniezione di sulprostone (è la prostaglandina associata alla RU486), Brenda Vise a 38 anni, il 12 settembre del 2001, dopo l’assunzione del Cytotec (è il misoprostol col suo nome commerciale) mai approvato dalla FDA per l’interruzione di gravidanza. Rebecca Tell Berg il 3 giugno del 2003 in Svezia, dissanguata nella doccia; c’è poi Holly Patterson che muore il 17 settembre del 2003 a San Francisco: esegue tutta la procedura dell’aborto a domicilio. Sta in casa, però inizia a stare male perseguitata da nausea, vomito, barcolla. Portata in ospedale, muore per uno shock settico. Un altro sacrificio utile alla causa. Lo slogan del femminismo sessantottino diventa mortale: «L’utero è mio e così muoio anch’io…». Il rosario di decessi continua: Chanelle Bryant, il 14 gennaio del 2004 per arresto cardiaco, dopo un edema generalizzato e la presenza di un litro di liquido peritoneale, non ce la fa più a vivere... abitava a Pasadena.
Nomi, date che tuttavia non scuotono né coscienze né i capibastone della ditta francese. Il mondo intero è tenuto abilmente all’oscuro di queste morti. Raramente, e additati come profeti di sventura, alcuni giornali mettono in risalto i rischi della kill-pill.
Qualsiasi medico di buon senso richiederebbe accertamenti, indagini, sospenderebbe il giudizio, se non l’applicazione. Parliamo di medici che hanno a cuore la vita, le persone; oggi, purtroppo Erode si veste di bianco: la professione medica è diventata, in certi ambienti, un tradimento del giuramento di Ippocrate (Ippocrate, lo precisiamo per il lettore che lo ignori, non era cattolico, formulò il suo giuramento nel 430 avanti Cristo e il suo giuramento è un laico inno alla professione medica).
Per i problemi, le morti che nel mondo vanno scatenandosi è costretta a muoversi la FDA, siamo nel 2004. Il 5 novembre dello stesso anno, visto il crescente cumulo di morti, la FDA aggiunge informazioni relativi al «rischio di infezioni e perdite di sangue (che) avvengono molto raramente a seguito di aborti spontanei, chirurgici e medici, compresi quelli con il Mifeprex» (6).
La scia di morte, purtroppo, non si arresta (perché dovrebbe?): il 14 giugno del 2005 è il turno (macabro visti i precedenti) di Orlane Shevin, trentaquattrenne figlia del presidente del Comitato nazionale di bioetica francese, il medico Didier Sicard. Vive a Sherman Oaks, in California. Ridondante la sintomatologia che l’accompagna nel feretro: nausea, vomito, dolori addominali. Tempo 12 ore dopo il ricovero e Shevin se ne va per sempre. Il 9 giugno aveva assunto, indovinate un po’?, le due innocenti pasticche.
Il 1° dicembre del 2005, a scanso di equivoci, si pronuncia la più autorevole delle riviste mediche, il New England Journal of Medicine: con il metodo chimico, spacciato per sicuro e indolore, si muore 10 volte di più rispetto all’aborto chirurgico a parità di settimane di gravidanza (fino alla settima) (7).
In poco tempo si viene a scoprire che probabilmente all’aborto chimico si associa l’infezione da Clostridium sordelli, un raro batterio che scatena nella donna infezioni mortali. Il Clostridium sordelli non provoca febbre, la morte giunge inaspettata. Una giovane donna canadese di 26 anni lascia questa vita per uno shock tossico dovuto all’infezione da Clostridium sordelli, sempre dopo l’assunzione di RU486.
Incontrovertibilmente il buon senso è alleato della ricerca scientifica: uccidere il figlio-embrione non è un fatto indolore sebbene la grancassa mediatica continui a sottolineare la procedura come «indolore e innocua».
E l’Italia? Stranamente, sembra tagliata fuori dalle polemiche e dall’uso della RU486. Giungono solo lontani echi delle schermaglie intorno a questa pillola. Su patrocinio dell’OMS, però, nella IIIª Clinica Ginecologica dell’Università degli Studi di Milano dal 1986 al 1989 si effettua una sperimentazione su 200 donne. La clinica è diretta da Pier Giorgio Crosignani.
Scientificamente la RU486 pone tanti problemi, troppo delicati da poterla introdurre a cuor leggero anche in Italia. Ma come accade di sovente, c’è un trucco, una strategia mirata per poterla introdurre da noi. Cominciare a parlarne, gridare al «mancato esercizio del diritto all’aborto», cominciare a far quel «rumore mediatico» necessario perché l’uomo comune sia portato comunque a schierarsi. Chi poteva farlo? Chi sono i campioni del «rumore mediatico»? Ovviamente quelli del Partito Radicale, che hanno una radio di partito per cavalcare le proprie campagne mortifere (aborto, eutanasia) e, sotto la «foglia di fico» delle trasmissioni in diretta dal Parlamento, ricevono contributi dallo Stato senza aver svolto una gara d’appalto.
Così, pian piano, nel 2000 in terra italiana inizia la campagna-RU486. Sono gli esponenti radicali nel Consiglio Regionale piemontese a chiedere perché viene negato l’aborto chimico in Italia. Un autogol visto che, è la risposta, la Exelgyn, la nuova azienda che la distribuisce, dopo la Roussel Uclaf, non ha mai chiesto la registrazione nel nostro Paese del prodotto killer (si capirà poi perché).
Questo a novembre. Già a gennaio però, il 29, il ginecologo Silvio Viale (8), militante radicale diventa l’ariete della RU486. Viale è un medico furbo che recita bene la parte che gli è stata assegnata: omettere informazioni, tranquillizzare le donne sulle morti, banalizzare i rischi, utilizzare da buon radicale la «cosmesi del linguaggio». Ad esempio evita di parlare di aborto dell’embrione. Parla di «espulsione» dell’embrione e non di aborto (9) che è più ripugnante per una coscienza vigile. Si emancipa nel linguaggio strada facendo quando a proposito della RU486 afferma: «E’ naturale che a un flusso di materiale indefinito sia attribuito un valore etico diverso da quello di un embrione, o di un feto, di un’epoca successiva, più formato e più visibile» (10). Flusso di materiale indefinito! E noi pensavamo che il culmine della «cosmesi del linguaggio» l’avesse raggiunta la psicanalista Marisa Fiumanò che a proposito di embrione ebbe a definirlo «materiale sessuale umano» o l’oncologo-nichilista Umberto Veronesi quando parlò di «ovulo fecondato» invece che di embrione (11)!
Viale chiede di poter utilizzare quale metodo di aborto quello chimico. La Direzione dell’ospedale di Torino tentenna. Chiede di predisporre un progetto e la documentazione necessaria (per i radicali è un invito a nozze, già tutto pronto). Un anno e mezzo dopo, ad ottobre, la Commissione regionale di bioetica approva la sperimentazione. Il «Mar Rosso della RU486» si è aperto anche in Italia…
manca l’ok della Consiglio Superiore della Sanità che non tarda ad arrivare (luglio 2004). Il 1° settembre del 2005 le donne «dure e pure» raggiungono la «Terra Promessa» della morte perché, anche in Italia, inizia ad essere usata la RU486. Non senza errori e ipocrisie perché dopo ventuno giorni gli ispettori dell’Aifa, sguinzagliati dal Ministro della Salute Storace, ravvisano anomalie: una donna ha abortito a casa, non dentro una struttura pubblica, un’altra ha avuto un aborto parziale sempre tra le mura domestiche con il rischio di setticemia. Violazione della 194. Ipocrisia su ipocrisia. Si cercano strade giuridiche per conciliare la 194 con l’aborto casalingo dimenticando che la funzione originaria della kill-pill è proprio quella di rendere domestico l’aborto, un aborto fai-da-te… E sulle problematiche mediche, le infezioni, la pericolosità della RU486 Viale delira: «Balle messe in giro dal movimento della vita americano, che sfrutta cinque righe che la FDA ha ordinato di inserire nelle controindicazioni della RU486: la probabilità di morte di un caso ogni centomila è omologa a quella dell’aborto chirurgico. Prendere la pillola abortiva non è più pericoloso che fare un viaggio in auto: se le vetture avessero i bugiardini le controindicazioni sarebbero più numerose». (12)
Viale, dimostra, se fosse necessario, di non leggere (apparentemente) il New England Journal of Medicine, e di disinteressarsi della FDA. Il progetto di morte medico-culturale deve andare avanti. E così sarà fino ai nostri giorni non senza lasciare interrogativi e dubbi.
Per esempio la strategia della stessa Exelgyn. Ha temporeggiato per mesi e mesi non chiedendo la commercializzazione del prodotto in Italia. Perche? Ovvio: le problematiche poste dalla RU486 devono essere risolte percorrendo la strada della politica e della cultura (così agiscono le lobby).
Non è un farmaco perché la gravidanza non è una patologia. E perché il figlio-embrione non è un virus. La RU486 è una pillola-killer, altro che una innocua pasticca indolore! E la sua commercializzazione in Italia, decretata il 30 luglio scorso, dopo quattro ore di riunione, dal Consiglio di amministrazione dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, è solo una presa d’atto. Il mifepristone, la sostanza contenuta nella RU486, è già stata utilizzata in Italia facendola arrivare dall’estero: nel 2006 è stata utilizzata negli ospedali del Piemonte, dell’Emilia Romagna, della Toscana, delle Marche e a Trento per un totale di 1.151 casi; nel 2007 ancora in Emilia Romagna, Toscana, Marche, Puglia e Trento per un totale di 1.010 casi. Evitarne la commercializzazione avrebbe scatenato un’ondata di proteste: «Negato il diritto all’aborto chimico», «L’Aifa cellula del Vaticano», «I talebani dell’Aifa contro le donne», insomma il solito bla-bla…
Secondo le disposizioni impartite dall’Aifa la pillola della morte potrà essere utilizzata in Italia solo in ambito ospedaliero per il «massimo rispetto della legge 194 (al festival dell’ipocrisia ci sono sempre nuovi attori - ndr -) (…). Dopo una lunga istruttoria è stato raccomandato di utilizzare il farmaco entro il quarantanovesimo giorno, cioè entro la settima settimana».
La carità della verità impone chiarezza, onestà intellettuale, rigore scientifico. E può essere utile iniziare facendo un po’ si storia.
Tanto per intenderci la paternità della RU486 (sigla derivante dal nome della ditta francese Roussel Uclaf e dalla etichettazione della molecola, 38486) è attribuita a Etienne-Emile Baulieu, un endocrinologo francese consulente dal 1963 della stessa ditta francese. In realtà è l’ungherese Arpad Istvan Csapo che muove le prime ricerche sugli effetti del progesterone sull’utero ravvisando l’interruzione della gravidanza quando viene bloccato lo stesso progesterone (è un ormone a struttura steroidea, sintetizzato dall’ovaio e dal surrene) (1). Siamo alla fine degli anni Sessanta, inizio degli anni Settanta. Le sue ricerche, le ipotesi di lavoro sono riprese dal gruppo di studio di Baulieu che occupandosi del controllo della fertilità - un’altra ossessione del femminismo - nel 1970 giunge ad individuare il recettore del progesterone nell’utero. E’ George Teutsch a sintetizzare il mifepristone nell’aprile del 1980 con il codice RU38486. Teutsch è un chimico e direttore delle ricerche endocrinologiche della Roussel Uclaf (2).
La miscela conoscitiva dei tre medici inizia ad esplodere per le prime applicazioni nell’ottobre del 1981: su 11 donne nove abortiscono con mifepristone e due devono ricorrere all’aborto chirurgico. Decisamente, un buon inizio di morte…
Ufficialmente la pillola abortiva è introdotta in Francia nel 1988 (non è irrilevante sottolineare che il Governo possedeva il 36% della Roussel Uclaf e che in piena bagarre il ministro socialista della Sanità francese Claude Evin ebbe a dire che «la RU486 è diventata proprietà morale delle donne»).
E’ un prodotto chimico sotto forma di pastiglia che contiene una sostanza chiamata mifepristone, uno steroide sintetico che inibisce il progesterone, (come si scriveva poc’anzi, l’ormone deputato a consentire il naturale proseguimento della gravidanza). Presa la pasticca (alcuni protocolli prevedono una dose di 600 mg, ma già 200 sono letali), (3) sostanzialmente, l’embrione muore lentamente in grembo. Il 3-5% delle donne abortisce. Non c’è bisogno dell’ospedale, di un’assistenza, di un medico. L’azione omicida della RU486 è combinata con un’altra sostanza, il misoprostol - una prostaglandina -, contenuta in un’altra pasticca (400 mcg) che scatena nell’utero le contrazioni necessarie per l’espulsione del sacco amniotico contenente il figlio-embrione. Due pasticche da inghiottire con un bicchier d’acqua e da prendere a distanza di due-tre giorni, apparentemente innocue. Un mix micidiale per l’embrione. Il procedimento tra la prima e la seconda pasticca deve avvenire entro il 49° giorno di gestazione. L’80% delle donne abortisce dopo la seconda pasticca. Il 12-15% espellerà il figlio-embrione entro 15-20 giorni. Un calvario lunghissimo. Il 5-8% delle donne sarà costretta, comunque, a ricorrere all’intervento chirurgico o all’isterosuzione per lo svuotamento completo dell’utero.
Venduta e pubblicizzata come rimedio facile al più temuto cruento aborto chirurgico, la realtà finora ha contraddetto le più rosee previsioni. Sono gli effetti collaterali, soprattutto nella fase espulsiva a destare maggiori preoccupazioni: «Dolori addominali e crampi (seconda la FDA - l’americana Food and Drug Administration - ndr - se ne lamenta il 96% delle donne), nausea (per il 61% delle donne), ma il di testa (31%), vomito (il 26%) diarrea (il 20%), vertigini (il 12%), affaticamento generale (10%), mal di schiena (9%). In misura minore si possono presentare brividi, esantema, perdita di coscienza, variazioni nella pressione del sangue e anche la febbre, che fino a 38° non è considerata un sintomo pericoloso» (4). Inoltre il flusso emorragico conseguente all’assunzione delle due pasticche è per quantità e durata notevolmente maggiore di un regolare flusso mestruale: da 8 a 17 giorni (5).
La stessa introduzione in Francia non è stata esente da problemi. E’ stato necessario modificare la vecchia legge Veil (1975) estendendo la possibilità di aborto fino alla 14ma settimana. Nel 2004 sono state aggiornate le linee guida.
La sua decantata innocuità è solo una misera bandiera ideologica, abilmente messa in campo da quelle agenzie politico-culturali che sanno orchestrare bene la musica da suonare per i loro scopi.
Eppure con questa «velenosa zigulì» sono morte 29 donne.
Ecco una breve lista di coloro che sono state immolate sull’altare del paleo-femminismo, oggi travestito da tecno-scientismo: Nadine Walkowiak muore in Francia, l’8 aprile del 1991 a 31 anni per uno shock cardiovascolare dopo un’iniezione di sulprostone (è la prostaglandina associata alla RU486), Brenda Vise a 38 anni, il 12 settembre del 2001, dopo l’assunzione del Cytotec (è il misoprostol col suo nome commerciale) mai approvato dalla FDA per l’interruzione di gravidanza. Rebecca Tell Berg il 3 giugno del 2003 in Svezia, dissanguata nella doccia; c’è poi Holly Patterson che muore il 17 settembre del 2003 a San Francisco: esegue tutta la procedura dell’aborto a domicilio. Sta in casa, però inizia a stare male perseguitata da nausea, vomito, barcolla. Portata in ospedale, muore per uno shock settico. Un altro sacrificio utile alla causa. Lo slogan del femminismo sessantottino diventa mortale: «L’utero è mio e così muoio anch’io…». Il rosario di decessi continua: Chanelle Bryant, il 14 gennaio del 2004 per arresto cardiaco, dopo un edema generalizzato e la presenza di un litro di liquido peritoneale, non ce la fa più a vivere... abitava a Pasadena.
Nomi, date che tuttavia non scuotono né coscienze né i capibastone della ditta francese. Il mondo intero è tenuto abilmente all’oscuro di queste morti. Raramente, e additati come profeti di sventura, alcuni giornali mettono in risalto i rischi della kill-pill.
Qualsiasi medico di buon senso richiederebbe accertamenti, indagini, sospenderebbe il giudizio, se non l’applicazione. Parliamo di medici che hanno a cuore la vita, le persone; oggi, purtroppo Erode si veste di bianco: la professione medica è diventata, in certi ambienti, un tradimento del giuramento di Ippocrate (Ippocrate, lo precisiamo per il lettore che lo ignori, non era cattolico, formulò il suo giuramento nel 430 avanti Cristo e il suo giuramento è un laico inno alla professione medica).
Per i problemi, le morti che nel mondo vanno scatenandosi è costretta a muoversi la FDA, siamo nel 2004. Il 5 novembre dello stesso anno, visto il crescente cumulo di morti, la FDA aggiunge informazioni relativi al «rischio di infezioni e perdite di sangue (che) avvengono molto raramente a seguito di aborti spontanei, chirurgici e medici, compresi quelli con il Mifeprex» (6).
La scia di morte, purtroppo, non si arresta (perché dovrebbe?): il 14 giugno del 2005 è il turno (macabro visti i precedenti) di Orlane Shevin, trentaquattrenne figlia del presidente del Comitato nazionale di bioetica francese, il medico Didier Sicard. Vive a Sherman Oaks, in California. Ridondante la sintomatologia che l’accompagna nel feretro: nausea, vomito, dolori addominali. Tempo 12 ore dopo il ricovero e Shevin se ne va per sempre. Il 9 giugno aveva assunto, indovinate un po’?, le due innocenti pasticche.
Il 1° dicembre del 2005, a scanso di equivoci, si pronuncia la più autorevole delle riviste mediche, il New England Journal of Medicine: con il metodo chimico, spacciato per sicuro e indolore, si muore 10 volte di più rispetto all’aborto chirurgico a parità di settimane di gravidanza (fino alla settima) (7).
In poco tempo si viene a scoprire che probabilmente all’aborto chimico si associa l’infezione da Clostridium sordelli, un raro batterio che scatena nella donna infezioni mortali. Il Clostridium sordelli non provoca febbre, la morte giunge inaspettata. Una giovane donna canadese di 26 anni lascia questa vita per uno shock tossico dovuto all’infezione da Clostridium sordelli, sempre dopo l’assunzione di RU486.
Incontrovertibilmente il buon senso è alleato della ricerca scientifica: uccidere il figlio-embrione non è un fatto indolore sebbene la grancassa mediatica continui a sottolineare la procedura come «indolore e innocua».
E l’Italia? Stranamente, sembra tagliata fuori dalle polemiche e dall’uso della RU486. Giungono solo lontani echi delle schermaglie intorno a questa pillola. Su patrocinio dell’OMS, però, nella IIIª Clinica Ginecologica dell’Università degli Studi di Milano dal 1986 al 1989 si effettua una sperimentazione su 200 donne. La clinica è diretta da Pier Giorgio Crosignani.
Scientificamente la RU486 pone tanti problemi, troppo delicati da poterla introdurre a cuor leggero anche in Italia. Ma come accade di sovente, c’è un trucco, una strategia mirata per poterla introdurre da noi. Cominciare a parlarne, gridare al «mancato esercizio del diritto all’aborto», cominciare a far quel «rumore mediatico» necessario perché l’uomo comune sia portato comunque a schierarsi. Chi poteva farlo? Chi sono i campioni del «rumore mediatico»? Ovviamente quelli del Partito Radicale, che hanno una radio di partito per cavalcare le proprie campagne mortifere (aborto, eutanasia) e, sotto la «foglia di fico» delle trasmissioni in diretta dal Parlamento, ricevono contributi dallo Stato senza aver svolto una gara d’appalto.
Così, pian piano, nel 2000 in terra italiana inizia la campagna-RU486. Sono gli esponenti radicali nel Consiglio Regionale piemontese a chiedere perché viene negato l’aborto chimico in Italia. Un autogol visto che, è la risposta, la Exelgyn, la nuova azienda che la distribuisce, dopo la Roussel Uclaf, non ha mai chiesto la registrazione nel nostro Paese del prodotto killer (si capirà poi perché).
Questo a novembre. Già a gennaio però, il 29, il ginecologo Silvio Viale (8), militante radicale diventa l’ariete della RU486. Viale è un medico furbo che recita bene la parte che gli è stata assegnata: omettere informazioni, tranquillizzare le donne sulle morti, banalizzare i rischi, utilizzare da buon radicale la «cosmesi del linguaggio». Ad esempio evita di parlare di aborto dell’embrione. Parla di «espulsione» dell’embrione e non di aborto (9) che è più ripugnante per una coscienza vigile. Si emancipa nel linguaggio strada facendo quando a proposito della RU486 afferma: «E’ naturale che a un flusso di materiale indefinito sia attribuito un valore etico diverso da quello di un embrione, o di un feto, di un’epoca successiva, più formato e più visibile» (10). Flusso di materiale indefinito! E noi pensavamo che il culmine della «cosmesi del linguaggio» l’avesse raggiunta la psicanalista Marisa Fiumanò che a proposito di embrione ebbe a definirlo «materiale sessuale umano» o l’oncologo-nichilista Umberto Veronesi quando parlò di «ovulo fecondato» invece che di embrione (11)!
Viale chiede di poter utilizzare quale metodo di aborto quello chimico. La Direzione dell’ospedale di Torino tentenna. Chiede di predisporre un progetto e la documentazione necessaria (per i radicali è un invito a nozze, già tutto pronto). Un anno e mezzo dopo, ad ottobre, la Commissione regionale di bioetica approva la sperimentazione. Il «Mar Rosso della RU486» si è aperto anche in Italia…
manca l’ok della Consiglio Superiore della Sanità che non tarda ad arrivare (luglio 2004). Il 1° settembre del 2005 le donne «dure e pure» raggiungono la «Terra Promessa» della morte perché, anche in Italia, inizia ad essere usata la RU486. Non senza errori e ipocrisie perché dopo ventuno giorni gli ispettori dell’Aifa, sguinzagliati dal Ministro della Salute Storace, ravvisano anomalie: una donna ha abortito a casa, non dentro una struttura pubblica, un’altra ha avuto un aborto parziale sempre tra le mura domestiche con il rischio di setticemia. Violazione della 194. Ipocrisia su ipocrisia. Si cercano strade giuridiche per conciliare la 194 con l’aborto casalingo dimenticando che la funzione originaria della kill-pill è proprio quella di rendere domestico l’aborto, un aborto fai-da-te… E sulle problematiche mediche, le infezioni, la pericolosità della RU486 Viale delira: «Balle messe in giro dal movimento della vita americano, che sfrutta cinque righe che la FDA ha ordinato di inserire nelle controindicazioni della RU486: la probabilità di morte di un caso ogni centomila è omologa a quella dell’aborto chirurgico. Prendere la pillola abortiva non è più pericoloso che fare un viaggio in auto: se le vetture avessero i bugiardini le controindicazioni sarebbero più numerose». (12)
Viale, dimostra, se fosse necessario, di non leggere (apparentemente) il New England Journal of Medicine, e di disinteressarsi della FDA. Il progetto di morte medico-culturale deve andare avanti. E così sarà fino ai nostri giorni non senza lasciare interrogativi e dubbi.
Per esempio la strategia della stessa Exelgyn. Ha temporeggiato per mesi e mesi non chiedendo la commercializzazione del prodotto in Italia. Perche? Ovvio: le problematiche poste dalla RU486 devono essere risolte percorrendo la strada della politica e della cultura (così agiscono le lobby).
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