Re: "Liberatori" e storie note
Capisco cosa dici ma prova ad immedesimarti e' tutto terribilmente degenerato , oltre che ha tirare dei sassi con la fionda contro i carriarmati, il ''martirio'' e' visto da loro come unico modo di combattere l'invasore.
Leggi questo interessante articolo di un giornalista dell'Avvenire poi alla parola Democrazia darai un significato diverso...
L'acqua del Tigri e dell'Eufrate, i grandi fiumi che l'hanno alimentata per secoli, non arriva più ai campi.
Il 70% della case irachene non ha più acqua potabile.
Ai tempi dell'odiato regime, l'Iraq esportava acqua in abbondanza all'Arabia Saudita, al Kuweit e alla Giordania.
Ora non ne ha per sé.
I fiumi, ancorchè pieni di corpi, esistono ancora.
Ma manca l'elettricità, manca il carburante per le pompe.
Tutte cose che non mancavano sotto Saddam, ma ora la famiglia media irachena riceve 2 ore giornaliere di luce.
Solo il 19% hanno ancora accesso a fognature.
La disoccupazione è al 60%.
L'Iraq produceva frutta e verdura, allevava bovini, un quinto del suo territorio mesopotamico era coltivabile.
Ora importa tutto.
«I sumeri erano più avanzati di quanto siamo noi oggi», dice Mahmud Shakir, storico dell'università di Baghdad.
E spiega come settemila anni fa ci fossero canali artificiali che irrigavano campi di grano, e come Nabuccodonosor irrigava i suoi giardini pensili, meraviglia del mondo.
Non era questo lo scopo della «liberazione», in fondo?
Nell'imminenza della prima guerra del Golfo, Edward Luttwak disse a chi scrive che l'Iraq «andava riportato all'età della pietra a suon di bombe», perché stava diventando il Paese arabo più moderno e avanzato dell'area, e ciò non era nell'interesse di Israele.
Bombe, bombe.
Le bombe piovono anche oggi, sull'Iraq liberato.
Liberazione e bombe sono tutt'uno.
Nel 2003, i bombardamenti massicci dal cielo erano parte della strategia «shock and awe»: colpire le forze armate irachene con tanta schiacciante violenza da spezzare ogni volontà di resistenza.
Ma oggi, quattro anni dopo, il liberatore continua a bombardare il Paese liberato, brutalità mai vista nella storia, bombardamenti contro covi di ribelli e insorgenti, dentro le città.
Definiti «di precisione» e «chirurgici», sono fatti con bombe da 900 chili.
Uccidono decine di civili, di cui i media occidentali non riferiscono.
In Afghanistan è lo stesso, ma lì almeno il governante-fantoccio, Karzai, ha protestato il 25 giugno, quando gli aerei americani hanno ammazzato 45 civili ad Hyderabad, e la protesta è arrivata sui giornali.
In Iraq, silenzio.
Tanto che si potrebbe credere ciò che non è vero, che gli americani non bombardano più.
Invece i bombardamenti aerei diventano più intensi.
Nel 2006, secondo la Associated Press, sono state lanciate 229 bombe (da 900 chili) e missili su posizioni vere o presunte di insorgenti.
Quest'anno, solo fino a giugno, sono già 237 bombe e missili.
Come ha detto Maria Carl, la tenente che parla con la stampa per l'ISAF, i bombardamenti «non progettiamo di ridurli, perché l'azione aerea ci rende possibile coprire molto più territorio di quanto potremmo fare con la truppa, che in questo momento è insufficiente».
Lo stesso vale per l'Iraq, anzi ancor di più.
Perché quando, prossimamente, la Casa Bianca dovrà su pressione del Congresso organizzare un ritiro graduale delle truppe di terra, tanto più dovrà intensificare i bombardamenti aerei, per compensare la mancanza di soldati.
E le perdite collaterali di civili aumenteranno.
E' una tradizione, per gli americani.
Una tradizione di inciviltà omicida.
Anche sotto Lyndon Johnson, fu Samuel Huntington del Council on Foreign Relations (quello dello «scontro di civiltà») a suggerire di bombardare massicciamente le campagne del Vietnam, per costringere i contadini - ritenuti sostenitori dei vietcong - a riparare nelle città.
E il graduale ritiro dal Vietnam fu accompagnato - o compensato - da un'intensificazione dei raid aerei.
Ora, la stessa inciviltà è sostenuta da una teoria strategica: «Revolution in military affaire», la convinzione che si possa combattere una guerra asimmetrica, contro partigiani che agiscono in mezzo alla popolazione nelle strade e fra le case, con caccia-bombardieri bisonici.
E' la strategia praticata da Israele contro i palestinesi, ritenuta un successo dal Pentagono e perciò adottata.
Le quattro settimane di incessanti, devastanti e crudeli bombardamenti del Libano, con la distruzione totale delle infrastrutture ma senza avere sconfitto Hezbollah, non induce gli strateghi del nulla a cambiare la loro dottrina.
Eppure, ha scritto sul Washington Post Philip Gordon, analista strategico della Brookings Institution, «Gli storici militari hanno un nome per la teoria applicata da Israele nella campagna in Libano: la chiamano 'fallacia del bombardamento strategico' (strategic bombing fallacy): invece di ammorbidire il nemico, i bombardamenti dal cielo tendono a unire i popoli dietro i loro capi, e li spingono ad indurire la resistenza contro un avversario che distrugge le loro case».
Ma nella teoria c'è un corollario non confessato: lo scopo non è di piegare il nemico, ma il genocidio di un popolo.
Se questa è l'intenzione, il suo lugubre successo non può essere negato.
Un successo, si capisce, in termini relativi.
Nel giugno 2006 la rivista medica britannica Lancet ha condotto un'indagine sul terreno, interrogando un campione di famiglie e di villaggi iracheni, chiedendo a ciascuna famiglia se avessero avuto dei morti nei mesi precedenti, e verificando quando possibile i certificati di decesso.
Più della metà degli intervistati (56%) hanno riferito che uno o più loro familiari erano stati uccisi da armi da fuoco; il 13%, da attentati esplosivi con auto-bombe.
Altri 14% da colpi d'artiglieria.
Solo il 13% da bombardamento aereo.
Dunque l'attacco dal cielo non è poi efficacissimo nemmeno come strumento di genocidio.
Ma quel che conta è il risultato bruto: secondo Lancet, nei primi 39 mesi di guerra e poi «liberazione», l'attività dei liberatori aveva fatto già 600 mila morti, ovviamente in genere civili.
Una media di 15 mila al mese, 300 al giorno.
Ma forse la cifra va aumentata, forse raddoppiata.
Lo suggerisce il numero dei pattugliamenti in abitati ostili condotti dall'armata americana di terra nei quattro anni di occupazione (pardon, liberazione): mille al giorno, secondo il Pentagono.
Che salgono a 5 mila con le incursioni di pattuglie collaborazioniste irachene o miste.
Poiché lo scopo di questi pattugliamenti è «catturare o uccidere terroristi» fra una popolazione che li sostiene, i Marines hanno specifiche regole d'ingaggio: aprire le porte delle case con le granate a mano, usare il massimo volume di fuoco contro i cecchini, chiamare l'appoggio dell'artiglieria e dell'aviazione ad ogni segno di resistenza organizzata.
Questa pattuglie, secondo i dati del Pentagono, affrontano ogni mese una media di 3 mila conflitti a fuoco, un centinaio al giorno.
In mezzo a case e strade e passanti.
Ogni giorno, i pattugliamenti comportano l'irruzione in 30 mila abitazioni e la loro messa a soqquadro alla ricerca di terroristi e di armi; in ogni casa così violata, i maschi sono legati, ammanettati, interrogati con metodi brutali - israeliani.
E basta che un ordigno faccia saltare una Humvee o un cecchino spari dal tetto, perché il massacro degli ammanettati e imbavagliati cominci.
I soldati americani non hanno istruzione di risparmiare i civili, al contrario: la loro impunità è garantita dai loro ufficiali.
Lo si è visto in uno dei rari episodi emersi sui media, il massacro di Haditha dove i Marines hanno massacrato i 24 membri di una sola famiglia per rappresaglia contro un attentato che aveva ucciso uno dei loro.
Il comandante dell'unità, generale Richard Huck, si è giustificato così: «Quei morti sono intervenuti nel corso di un'operazione di combattimento, ed è frequente che ci siano vittime civili in questo tipo di conflitto. In coscienza, ho visto che gli insorti avevano sparato sui miei uomini e che i soldati della Kilo Company avevano risposto. In queste circostanze, la morte di 15 civili estranei al conflitto non mi pareva tanto insolita da giustificare un'inchiesta».
Quand'è che il numero dei civili massacrati diventa «inabituale», tanto da riferirne nei rapporti?
Cento?
Duecento?
Il numero conta poco, per i rappresentanti armati dell'Occidente superiore, per i liberatori.
Il tenente Adam Mathes, comandante diretto dell'unità che commise l'eccidio di Haditha (donne e bambini nel numero) ha risposto che bisognava rendere cosciente la popolazione che «queste sono le cose sgradevoli che vi capitano se lasciate che i terroristi usino la vostra casa per attaccare i nostri soldati».
La stessa cosa che dicono in Israele: bisogna pur educarli, questi capiscono solo la forza.
Non è genocidio, è educazione civica.
Imparate a vivere sotto la libertà.
@ karl: Beh, non che i terroristi musulmani se ne siano stati calmi nelle loro terre... Gli attentati di matrice islamica ti dicono niente?
Leggi questo interessante articolo di un giornalista dell'Avvenire poi alla parola Democrazia darai un significato diverso...
L'acqua del Tigri e dell'Eufrate, i grandi fiumi che l'hanno alimentata per secoli, non arriva più ai campi.
Il 70% della case irachene non ha più acqua potabile.
Ai tempi dell'odiato regime, l'Iraq esportava acqua in abbondanza all'Arabia Saudita, al Kuweit e alla Giordania.
Ora non ne ha per sé.
I fiumi, ancorchè pieni di corpi, esistono ancora.
Ma manca l'elettricità, manca il carburante per le pompe.
Tutte cose che non mancavano sotto Saddam, ma ora la famiglia media irachena riceve 2 ore giornaliere di luce.
Solo il 19% hanno ancora accesso a fognature.
La disoccupazione è al 60%.
L'Iraq produceva frutta e verdura, allevava bovini, un quinto del suo territorio mesopotamico era coltivabile.
Ora importa tutto.
«I sumeri erano più avanzati di quanto siamo noi oggi», dice Mahmud Shakir, storico dell'università di Baghdad.
E spiega come settemila anni fa ci fossero canali artificiali che irrigavano campi di grano, e come Nabuccodonosor irrigava i suoi giardini pensili, meraviglia del mondo.
Non era questo lo scopo della «liberazione», in fondo?
Nell'imminenza della prima guerra del Golfo, Edward Luttwak disse a chi scrive che l'Iraq «andava riportato all'età della pietra a suon di bombe», perché stava diventando il Paese arabo più moderno e avanzato dell'area, e ciò non era nell'interesse di Israele.
Bombe, bombe.
Le bombe piovono anche oggi, sull'Iraq liberato.
Liberazione e bombe sono tutt'uno.
Nel 2003, i bombardamenti massicci dal cielo erano parte della strategia «shock and awe»: colpire le forze armate irachene con tanta schiacciante violenza da spezzare ogni volontà di resistenza.
Ma oggi, quattro anni dopo, il liberatore continua a bombardare il Paese liberato, brutalità mai vista nella storia, bombardamenti contro covi di ribelli e insorgenti, dentro le città.
Definiti «di precisione» e «chirurgici», sono fatti con bombe da 900 chili.
Uccidono decine di civili, di cui i media occidentali non riferiscono.
In Afghanistan è lo stesso, ma lì almeno il governante-fantoccio, Karzai, ha protestato il 25 giugno, quando gli aerei americani hanno ammazzato 45 civili ad Hyderabad, e la protesta è arrivata sui giornali.
In Iraq, silenzio.
Tanto che si potrebbe credere ciò che non è vero, che gli americani non bombardano più.
Invece i bombardamenti aerei diventano più intensi.
Nel 2006, secondo la Associated Press, sono state lanciate 229 bombe (da 900 chili) e missili su posizioni vere o presunte di insorgenti.
Quest'anno, solo fino a giugno, sono già 237 bombe e missili.
Come ha detto Maria Carl, la tenente che parla con la stampa per l'ISAF, i bombardamenti «non progettiamo di ridurli, perché l'azione aerea ci rende possibile coprire molto più territorio di quanto potremmo fare con la truppa, che in questo momento è insufficiente».
Lo stesso vale per l'Iraq, anzi ancor di più.
Perché quando, prossimamente, la Casa Bianca dovrà su pressione del Congresso organizzare un ritiro graduale delle truppe di terra, tanto più dovrà intensificare i bombardamenti aerei, per compensare la mancanza di soldati.
E le perdite collaterali di civili aumenteranno.
E' una tradizione, per gli americani.
Una tradizione di inciviltà omicida.
Anche sotto Lyndon Johnson, fu Samuel Huntington del Council on Foreign Relations (quello dello «scontro di civiltà») a suggerire di bombardare massicciamente le campagne del Vietnam, per costringere i contadini - ritenuti sostenitori dei vietcong - a riparare nelle città.
E il graduale ritiro dal Vietnam fu accompagnato - o compensato - da un'intensificazione dei raid aerei.
Ora, la stessa inciviltà è sostenuta da una teoria strategica: «Revolution in military affaire», la convinzione che si possa combattere una guerra asimmetrica, contro partigiani che agiscono in mezzo alla popolazione nelle strade e fra le case, con caccia-bombardieri bisonici.
E' la strategia praticata da Israele contro i palestinesi, ritenuta un successo dal Pentagono e perciò adottata.
Le quattro settimane di incessanti, devastanti e crudeli bombardamenti del Libano, con la distruzione totale delle infrastrutture ma senza avere sconfitto Hezbollah, non induce gli strateghi del nulla a cambiare la loro dottrina.
Eppure, ha scritto sul Washington Post Philip Gordon, analista strategico della Brookings Institution, «Gli storici militari hanno un nome per la teoria applicata da Israele nella campagna in Libano: la chiamano 'fallacia del bombardamento strategico' (strategic bombing fallacy): invece di ammorbidire il nemico, i bombardamenti dal cielo tendono a unire i popoli dietro i loro capi, e li spingono ad indurire la resistenza contro un avversario che distrugge le loro case».
Ma nella teoria c'è un corollario non confessato: lo scopo non è di piegare il nemico, ma il genocidio di un popolo.
Se questa è l'intenzione, il suo lugubre successo non può essere negato.
Un successo, si capisce, in termini relativi.
Nel giugno 2006 la rivista medica britannica Lancet ha condotto un'indagine sul terreno, interrogando un campione di famiglie e di villaggi iracheni, chiedendo a ciascuna famiglia se avessero avuto dei morti nei mesi precedenti, e verificando quando possibile i certificati di decesso.
Più della metà degli intervistati (56%) hanno riferito che uno o più loro familiari erano stati uccisi da armi da fuoco; il 13%, da attentati esplosivi con auto-bombe.
Altri 14% da colpi d'artiglieria.
Solo il 13% da bombardamento aereo.
Dunque l'attacco dal cielo non è poi efficacissimo nemmeno come strumento di genocidio.
Ma quel che conta è il risultato bruto: secondo Lancet, nei primi 39 mesi di guerra e poi «liberazione», l'attività dei liberatori aveva fatto già 600 mila morti, ovviamente in genere civili.
Una media di 15 mila al mese, 300 al giorno.
Ma forse la cifra va aumentata, forse raddoppiata.
Lo suggerisce il numero dei pattugliamenti in abitati ostili condotti dall'armata americana di terra nei quattro anni di occupazione (pardon, liberazione): mille al giorno, secondo il Pentagono.
Che salgono a 5 mila con le incursioni di pattuglie collaborazioniste irachene o miste.
Poiché lo scopo di questi pattugliamenti è «catturare o uccidere terroristi» fra una popolazione che li sostiene, i Marines hanno specifiche regole d'ingaggio: aprire le porte delle case con le granate a mano, usare il massimo volume di fuoco contro i cecchini, chiamare l'appoggio dell'artiglieria e dell'aviazione ad ogni segno di resistenza organizzata.
Questa pattuglie, secondo i dati del Pentagono, affrontano ogni mese una media di 3 mila conflitti a fuoco, un centinaio al giorno.
In mezzo a case e strade e passanti.
Ogni giorno, i pattugliamenti comportano l'irruzione in 30 mila abitazioni e la loro messa a soqquadro alla ricerca di terroristi e di armi; in ogni casa così violata, i maschi sono legati, ammanettati, interrogati con metodi brutali - israeliani.
E basta che un ordigno faccia saltare una Humvee o un cecchino spari dal tetto, perché il massacro degli ammanettati e imbavagliati cominci.
I soldati americani non hanno istruzione di risparmiare i civili, al contrario: la loro impunità è garantita dai loro ufficiali.
Lo si è visto in uno dei rari episodi emersi sui media, il massacro di Haditha dove i Marines hanno massacrato i 24 membri di una sola famiglia per rappresaglia contro un attentato che aveva ucciso uno dei loro.
Il comandante dell'unità, generale Richard Huck, si è giustificato così: «Quei morti sono intervenuti nel corso di un'operazione di combattimento, ed è frequente che ci siano vittime civili in questo tipo di conflitto. In coscienza, ho visto che gli insorti avevano sparato sui miei uomini e che i soldati della Kilo Company avevano risposto. In queste circostanze, la morte di 15 civili estranei al conflitto non mi pareva tanto insolita da giustificare un'inchiesta».
Quand'è che il numero dei civili massacrati diventa «inabituale», tanto da riferirne nei rapporti?
Cento?
Duecento?
Il numero conta poco, per i rappresentanti armati dell'Occidente superiore, per i liberatori.
Il tenente Adam Mathes, comandante diretto dell'unità che commise l'eccidio di Haditha (donne e bambini nel numero) ha risposto che bisognava rendere cosciente la popolazione che «queste sono le cose sgradevoli che vi capitano se lasciate che i terroristi usino la vostra casa per attaccare i nostri soldati».
La stessa cosa che dicono in Israele: bisogna pur educarli, questi capiscono solo la forza.
Non è genocidio, è educazione civica.
Imparate a vivere sotto la libertà.
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